Dall'Archivio Storico del Corriere della Sera:"Dongo – il silenzio e' d'oro" – Ciò che il Partito Comunista non dice

MISTERI D’ITALIA

Mezzo secolo di omerta’ . Chi rubo’ il tesoro dei fascisti? Milioni in valuta, casse di oggetti preziosi, persino migliaia di fedi donate alla patria. un po’ di quella enorme fortuna servi’ a finanziare il PCI, ma buona parte fini’ nel nulla. Chi sapeva e voleva parlare fu ucciso

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L’ autocolonna fu bloccata dai partigiani a Musso, sponda occidentale del lago di Como, tra le sette e le otto del mattino del 26 aprile 1945. C’ era, su un camion blindato, Mussolini, poi trentuno tra autisti, dipendenti dei ministeri della Repubblica sociale italiana, funzionari, segretari, gerarchi, ministri. Perfino un pugilatore, Antonio Brocchi: non si sa cosa facesse tra quella gente. Davanti, gli autocarri della Flak, con i soldati tedeschi agli ordini del capitano Fallmeyer, e la scorta SS del Duce, comandata da un tenentino isterico di nome Birzer. I fascisti, con quelle staffette, non temevano nessun attacco. Quando mai tanti tedeschi si sarebbero fatti bloccare dai partigiani? Invece, si fecero bloccare. Comincio’ la lunga serie di discussioni tra Fallmeyer e Birzer da una parte, e capi delle Brigate Garibaldi dall’ Alto Lario dall’ altra, per contrattare il passaggio verso il confine elvetico. Il transito fu concesso ai tedeschi, ma non ai fascisti. E’ noto come fini’ : Mussolini che tenta di passare salendo su un autocarro della Flak travestito da milite delle SS, il riconoscimento, l’ arresto, il trasferimento prima a Dongo e poi a Giulino di Mezzegra, la fucilazione con la Petacci a Bonzanigo. Di questo, e della sorte degli altri catturati con lui, si sa ogni cosa e quello che non si sa potra’ essere finalmente rivelato un giorno, per esempio chi dei tre che spararono a Mussolini (Valerio, Lampredi e Moretti) lo abbia veramente fatto e chi no. Perche’ tutti e tre mentirono, o per appropriarsi dapprima un momento di gloria o per paura, poi, di finire a loro volta eliminati come i tanti che era bene non parlassero piu’ . I gerarchi volevano mettersi al sicuro Il mistero e’ un altro e riguarda il tesoro che i gerarchi portavano con se’ in fuga, nella speranza di rifarsi una vita chissa’ dove, passata la bufera. E i documenti che Mussolini teneva in una cartella piena di fascicoli, sui quali contava per difendersi un giorno, davanti al tribunale che lo avrebbe giudicato. Alla domanda dove sia finito quel tesoro, e’ facile dare subito una risposta parziale: nelle casse del Partito comunista, il quale se ne prese la fetta piu’ grossa. Ma non tutta: il resto si disperse come un fiume attraverso mille rivoli lungo la sponda del lago e i partecipanti al blocco e alla cattura della colonna vi si abbeverarono abbondantemente, perche’ i doveri verso il partito erano una cosa, ma la possibilita’ di portarsi a casa un “ricordino” e sistemarsi per il resto dei loro giorni un’ altra. Il mistero che ancora circonda il tesoro di Dongo si riferisce alla sua consistenza. Di sicuro vi e’ soltanto che si trattava di una sostanza di proporzioni enormi, tra beni dello Stato repubblicano, denari ritirati dalle banche milanesi al mattino della fuga, patrimoni e averi dei gerarchi e delle loro famiglie, gioielli, valuta estera, oro e perfino due damigiane colme di “fedi” d’ oro donate alla Patria il diciotto dicembre 1935 e sequestrate a Como presso l’ ex Decima Mas in via Risorgimento. Nemmeno oggi un inventario esatto di quanto fu sequestrato, ritrovato, rastrellato, recuperato, versato alle varie filiali delle Casse di Risparmio e della Banca d’ Italia (e poi ritirato da elementi del Pci) e’ possibile. Dalle otto del mattino alle due del pomeriggio del 26 l’ autocolonna bloccata resto’ ferma all’ ingresso di Musso. Scesero quasi tutti i fascisti e presto capirono che sarebbe stato difficile venirne fuori e che era meglio provvedere a se stessi e a mettere al sicuro quanto s’ erano portati appresso. Il tesoro comincia a disperdersi da questo momento. C’ era, ad assistere, il parroco del paese, don Mainetti: e in tanti gli si affollarono addosso, chi affidandogli valigie da custodire fino al loro ritorno, chi pregandolo di nasconderli in casa, chi perfino (il ministro dei Lavori Pubblici, Romano) scongiurandolo di tenere presso di se’ il figlio di appena quindici anni. Altri, e qualcuno con successo, specie tra chi era in coda alla colonna, penso’ di rifugiarsi nella montagna e lo fece con i fagotti che poteva reggere, altri entrarono nelle case vicine e consegnarono agli sbigottiti contadini cassette piene di preziosi, rotoli di banconote, assegni, monili, addirittura facendosi rilasciare ricevute che chissa’ mai quale valore avrebbero potuto avere. Ma il grosso dei beni fu sequestrato sulla piazza di Dongo e ammassato nella saletta al primo piano del Municipio. E’ facile immaginare, nella confusione di quei momenti e con tanti che entravano e uscivano e mettevano le mani per rendersi conto delle belle cose che portavano con se’ i gerarchi, quanto sia sparito. Di certo si sa che Mussolini aveva il fondo riservato della Repubblica sociale italiana, affidato al prefetto Gatti, consistente in oltre un miliardo in banconote italiane ed estere e in una quantita’ imprecisata di lingotti e monete d’ oro. C’ erano poi i valori personali dei componenti la colonna, quelli dei tedeschi di Fallmeyer, quelli di tali capitano Kummel e tenente Hess (trentadue milioni), quelli dei ministeri della Rsi, oltre a pacchi di documenti. Sul tavolo del municipio di Dongo si trovavano sicuramente 1.045.880.000 lire, 169mila franchi svizzeri, 2700 sterline di carta, 63mila dollari, 4.043 monete d’ oro, 102.880 chili d’ oro e poi argenteria, collane, braccialetti, pellicce e (dice l’ inventario) “due barche nuove”, quasi che i fuggiaschi avessero preventivato di potersene servire per scappare attraverso il lago. C’ era poi un camioncino a cui Mussolini teneva moltissimo. Trasportava il suo archivio personale e, presumibilmente, le sue personali sostanze (non aveva appena venduto il giorno innanzi la sede del “Popolo d’ Italia” all’ industriale Celle per cento milioni?). Questo camioncino si fermo’ in panne a Garbagnate, fu coscienziosamente saccheggiato dai partigiani locali, nulla si pote’ recuperare non tanto delle carte, quanto di cio’ che agli zelanti ripulitori interessava di piu’ , ossia i denari e l’ oro. Ma anche i gerarchi erano ben provveduti. Fu calcolato che a Musso consegnassero quattro milioni di lire, 147mila franchi svizzeri, sedici milioni di franchi francesi, 66 chili d’ oro e una quantita’ imprecisata di sterline, dollari, pesetas ed escudos. L’ onesta’ pagata a caro prezzo Racconta il partigiano Lazzaro, che catturo’ Mussolini con la sua valigia di documenti, di aver compilato una lista lunga cinque fogli dattilografati per elencare i vari reperti. Inoltre “… io vidi uno scrigno che sembrava d’ oro e rivestito d’ oro e almeno con il coperchio d’ oro, di formato rettangolare… legato con due nastrini e una cassetta metallica, di cui non si trovava la chiave. La aprimmo e vedemmo molte sterline d’ oro, pesetas e franchi svizzeri. Gianna conto’ i franchi svizzeri: 76mila. C’ erano inoltre brillanti, orologi incastonati di gemme e molti oggetti preziosi. Gianna mi disse, indicando i fogli dell’ inventario: “Tutto questo sara’ consegnato al Partito comunista…”. “Gianna” era la partigiana Giuseppina Tuissi, amante del “capitano Neri” (Luigi Canali), entrambi protagonisti delle ultime ore di Mussolini ed entrambi assassinati nei giorni successivi. L’ ordine di eliminarli era venuto dalle gerarchie comuniste di Como: sapevano troppo, avevano visto troppo, avevano parlato troppo e soprattutto avevano cambiato idea e quel tesoro catturato a Dongo avevano pensato dovesse andare allo Stato, non al Pci. Cosi’ , in specie, “Gianna” aveva fatto: e al momento di venire assassinata e gettata nel lago portava ancora con se’ la ricevuta di un versamento di 250 milioni che avrebbero dovuto finire invece al partito. I morti che segnarono con le loro croci i misteri di Dongo pagarono un prezzo drammatico per il loro deviazionismo e per non aver saputo anteporre i doveri verso il partito alla loro personale onesta’ (o alla difesa del proprio interesse). Cosi’ sparirono, oltre alla “Gianna” e al “Neri”, Giuseppe Frangi, Dina Chiappo, Annamaria Bianchi, suo padre Michele Bianchi, l’ avvocato Cetti e sua moglie Noemi, Alfredo Venturi e il tenente colonnello Di Domenico. Il 29 aprile 1957, alla Corte d’ Assise di Padova, comincio’ il processo per scoprire la fine fatta dal
l’ oro di Dongo e per condannare i colpevoli e i mandanti dei delitti che ne erano stati la conseguenza. Fra gli imputati, i capi partigiani comunisti Fabio Vergani e Dante Gorreri, accusati di avere ordinato gli assassini e di avere consegnato la maggior parte del tesoro al Pci. Ma un giudice del processo si tolse la vita e siccome non verranno supplenti, la causa fu rimandata e da allora nessuno ne ha piu’ sentito parlare. In compenso Vergani e Gorreri vennero salvati col solito sistema di eleggerli deputati per piu’ legislature, fino a prescrizione del crimine. E le autorizzazioni a procedere nei loro confronti richieste dalla magistratura furono sempre, come usa anche oggi, respinte dalle Camere. Tanti gioielli nelle sottane Curioso che, tra gli imputati, vi fosse quel Michele Moretti, ex terzino del Como, che con Valerio e Lampredi aveva partecipato all’ eliminazione di Mussolini. Ma non di quello era accusato a Padova, bensi’ di qualcosa che lo accomunava ai tanti che, dopo aver consegnato al partito il grosso dei beni appartenenti allo Stato, pensarono bene di tenere qualcosa per se’ . Nel suo caso di aver rubato nel mucchio anelli, spille e denari e di averli donati a tale Dina De Pianti. Quanto a Gorreri, l’ accusa era di “avere distratto, con danno rilevante per l’ erario dello Stato, alcune valigie contenenti valuta per centinaia di milioni”. Zerbino aveva venticinque milioni, Mezzasoma quindici, altrettanti Romano e Bombacci, otto Barracu, otto della Petacci erano stati affidati a Casalinuovo, sette Utimperghe, un sacco di montagna pieno di lingotti d’ oro era sull’ auto di Marcello Petacci e la sua compagna aveva una borsa di gioielli. La moglie del ministro dei Lavori Pubblici Romano si chiamava Rosa Maria Mittag ed era tedesca. Contando su cio’ , sali’ a bordo degli autocarri di Fallmeyer e riusci’ a passare in Svizzera. Tutti i gerarchi le avevano affidato gioielli, denaro, assegni e quant’ altro nella certezza che li avrebbe custoditi e un giorno resi. Ma i doganieri svizzeri le chiesero come mai il suo ventre fosse cosi’ prominente e lei rispose d’ essere incinta. La fecero spogliare e scoprirono che sotto le sottane aveva nascosto il tesoro. La presero e la rispedirono in Italia, dove ogni cosa le fu sequestrata per finire nel grande calderone destinato al Pci. Non soltanto cio’ che venne sequestrato ai gerarchi in fuga, nelle loro macchine, nelle loro valigie, costitui’ il tesoro di Dongo. Non soltanto quello che entro’ nelle casse del Partito comunista (e nelle mani dei ladri, partigiani e gente del luogo, che profittarono dell’ occasione unica). I trentadue milioni dei tedeschi Kummel e Hess furono consegnati all’ immancabile svizzero che non manca mai in circostanze del genere, tale Alois Hofmann, il quale li avrebbe depositati . tramite Urbano Lazzaro . alla Cariplo di Domaso. Oggetti d’ oro per trentasei chili furono ripescati dal fiume Mera dove li avevano gettati i tedeschi di Fallmeyer. Altre due valigie di preziosi erano finite nel lago per mano del tenente Birzer e anche queste vennero probabilmente ripescate, chissa’ da chi. Molti dei gerarchi fascisti avevano sistemato le famiglie al sicuro nelle ville requisite lungo le sponde del lago. Quelle ville, dopo il 28 aprile e la cattura dei proprietari, furono perquisite e i ritrovamenti fatti potevano essere ritenuti sensazionali. A Villa Mantero, che aveva ospitato Rachele Mussolini, si recuperarono oggetti preziosi di proprieta’ del Duce, tra cui il collare dell’ Annunziata in oro, decine di decorazioni straniere in oro, gemelli e spille d’ oro, perfino i suoi indumenti personali. Rachele Mussolini, quando fu fermata, aveva una borsa piena di sterline e di valuta estera per molti milioni, che le fu restituita. Tesori anche in casa di Buffarini Guidi, di Farinacci e di Enzo Grossi. In un rapporto segreto del questore di Como, Grassi, al presidente del Consiglio, Alcide De Gasperi, e’ detto chiaramente che il grosso del tesoro di Dongo e dell’ oro dei gerarchi era finito al Partito comunista, ma che era pericoloso parlarne “… tanto piu’ col permanere nel governo, nei posti piu’ delicati, di esponenti di quel partito che, ove si facesse piena luce non soltanto sull’ oro del Duce, ma su tutta l’ attivita’ sotterranea a esso connessa, verrebbe irrimediabilmente colpito con conseguenti reazioni che oggi e’ assai difficile prevedere”. Avevano rubato a man bassa anche i capi tedeschi e nemmeno essi poterono godersi il frutto delle loro rapine. Il generale del Ruk di Como, Cershkow, viveva nella villa requisita al dottor Rastelli. Scappando, consegno’ al padrone di casa cinquecento milioni (di allora…) con una lettera nella quale lo pregava di custodirglieli finche’ fosse tornato a riprenderseli. Un tedesco troppo ottimista. Due giorni dopo, cento di quei milioni erano gia’ nelle mani del Comando generale Volontari della Liberta’ e quattrocento se li presero i rappresentanti del Comando Alleato. Non furono soltanto i comunisti a spartirsi il bottino e il mistero.

Bertoldi Silvio

Pagina 23
(14 settembre 1993) – Corriere della Sera

http://archiviostorico.corriere.it/1993/settembre/14/Dongo_silenzio_oro_co_0_9309149950.shtml

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