Collusione PD-PDL: le 80 leggi della vergogna (1994-2009) – Marco Travaglio

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Collusione PD-PDL: le 80 leggi della vergogna (1994-2009) – Marco Travaglio

80 leggi dell vergogna approvate da PD e PDL (o le sigle precedenti dei medesimi partiti…) oppure approvate dall’uno con il silenzio assenso dell’altro. Dalle leggi “salva Previti” o altri, alle regalie a Mediaset, etc. A cura di Marco Travaglio. 

(Grande articolo tratto da Micromega di gennaio 2011. Ovviamente ad oggi la lista si è allungata a dismisuraI

Collusione PD-PDL: le 80 leggi della vergogna (1994-2009) – Marco Travaglio

DELLE LEGGI VERGOGNA, IL CATALOGO È QUESTO

 

Un’attenta e completa panoramica di tutti quei provvedimenti che, varati ad hoc per salvare
il Cavaliere e i suoi amici (anche dal centro-sinistra, ahimè), hanno devastato il sistema legislativo italiano. Dalla nascita della Seconda Repubblica l’autore
ne segnala ben ottanta. Ottanta leggi di cui vergognarsi.
Che fanno strame della legalità.

 

Di Marco Travaglio

 

In questi 17 anni di Seconda Repubblica (o presunta tale), le leggi vergogna non si contano. Qui riepiloghiamo quelle, fra le tante, che salvaguardano gli interessi di pochi cittadini privilegiati, a discapito di tutti gli altri. Leggi ad personam/s, ad aziendam/s, ad mafiam/s, ad castam e così via. Ne abbiamo contate 80. Se ne abbiamo dimenticata qualcuna, i lettori ce la segnalino e colmeremo la lacuna.

 

Centro-destra, governo Berlusconi 1

 

1. Decreto Biondi (1994). Approvato il 13 luglio 1994 dal governo Berlusconi 1, vieta la custodia cautelare in carcere (trasformata al massimo in arresti domiciliari) per i reati contro la pubblica amministrazione e quelli finanziari, comprese corruzione e concussione, proprio mentre stanno per scattare gli arresti per le tangenti Fininvest della guardia di finanza. Così il blitz si blocca, intanto vengono scarcerati 2764 detenuti (di cui 350 colletti bianchi coinvolti in Tangentopoli). Il pool Mani Pulite si autoscioglie. Le proteste di piazza contro il «Salvaladri» inducono la Lega e An a costringere Berlusconi a ritirare il decreto. Subito dopo vengono arrestati Paolo Berlusconi, Salvatore Sciascia,  capo dei servizi fiscali Fininvest, e Massimo Maria Berruti, consulente del gruppo.

 

2. Legge Tremonti (1994). Il decreto 357/1994 detassa del 50 per cento gli utili reinvestiti dalle imprese, purché riguardino l’acquisto di «beni strumentali nuovi». La neonata Mediaset utilizza la legge per risparmiare 243 miliardi di lire di imposte sull’acquisto di diritti cinematografici per film d’annata: che non sono beni strumentali, ma immateriali, e non sono nuovi, ma vecchi. A sanare l’illegalità interviene poi una circolare «interpretativa» Tremonti che fa dire alla sua legge il contrario di ciò che diceva, estendendo il concetto di beni strumentali a quelli immateriali e il concetto di beni nuovi a quelli vecchi già usati all’estero.

 

 

3. Condono fiscale (1994). Camuffato da «concordato fiscale», il primo condono Tremonti dell’era berlusconiana viene approvato insieme al decreto Biondi il 13 luglio 1994: gli evasori potranno «patteggiare» le liti col fisco pagando una modica multa. Chi ha contenziosi fino a 2 milioni di lire può chiuderli pagando un obolo di 150 mila lire. Per le liti da 2 a 20 milioni, si deve versare il 10 per cento. Per quelle ancora superiori, invece, deve ricorrere alla «conciliazione»: sarà il giudice a stabilire la somma dovuta. Poi il concordato viene esteso anche alle società.

 

4. Condono edilizio (1994). Firmato dal ministro dei Lavori pubblici, Roberto Radice, riapre i termini del famigerato condono Craxi del 1985: si possono sanare, a prezzi stracciati, le opere abusive ultimate entro il 31 dicembre 1993 pagando le vecchie ammende moltiplicate per 2 (se l’abuso risale a prima del marzo 1985) o per 3 (se commesso dopo).

 

Centro-sinistra più Lega, governo Dini

 

5. Manette difficili (1995). La riforma della custodia cautelare e non solo, varata nell’agosto 1995, in pieno governo Dini, da tutti i partiti (Lega esclusa), ripesca e in parte peggiora il decreto Biondi. Più difficile la custodia in carcere per i reati di Tangentopoli e non solo: abolito l’arresto obbligatorio per associazione mafiosa; accorciata la durata massima della custodia cautelare; abrogato l’articolo 371bis (arresto in flagranza del falso testimone).

 

Centro-sinistra, governi Prodi 1, D’Alema e Amato 2

 

6. Legge Maccanico (1997). La Consulta ha stabilito che Mediaset non può avere tre tv, ma deve scendere a due, entro il 28 agosto 1996. Ma il governo Prodi, grazie al ministro Maccanico, concede un anno di proroga, poi il 24 luglio 1997 fa approvare la legge sulle tv, che lascia tutto com’è: Mediaset dovrà cedere una rete solo quando s’insedierà la neonata Agcom, ma l’Agcom potrà insediarsi solo quando esisterà in Italia «un congruo sviluppo dell’utenza dei programmi televisivi via satellite o via cavo». Che significhi «congruo sviluppo» nessuno lo sa, così Rete4 seguita a trasmettere sine die in barba alla Consulta.

 

7. D’Alema salva-Rete4 (1999). L’Agcom si mette all’opera solo nel 1998, presenta il nuovo piano frequenze e bandisce la gara per rilasciare le 8 concessioni nazionali. Rete4, essendo «eccedente», perde la concessione; al suo posto la vince Europa7 di Francesco Di Stefano. Ma il governo D’Alema, nel 1999, concede a Rete4 l’«abilitazione provvisoria» a trasmettere senza concessione, così Europa7 rimane senza le frequenze cui ha diritto per legge.

 

8. Abuso d’ufficio (1997). Il 1° luglio 1997 sinistra e destra depenalizzano il reato di abuso d’ufficio «non patrimoniale»: quello del pubblico ufficiale che commette un atto contrario ai suoi doveri d’ufficio, ma non si riesce a dimostrare che ne abbia avuto un vantaggio quantificabile in denaro. Vengono così legalizzati i favoritismi, le lottizzazioni, i nepotismi, i concorsi truccati, le raccomandazioni nella pubblica amministrazione. L’abuso patrimoniale rimane reato, ma solo se commesso «intenzionalmente»: per punirlo, il giudice dovrà dimostrare che è stato commesso per favorire una persona e per sfavorirne un’altra. E la pena massima per quest’ultima fattispecie viene comunque sensibilmente ridotta, da 5 a 3 anni di reclusione, con tre conseguenze: niente più custodia cautelare; niente più intercettazioni; termini di prescrizione dimezzati (da 15 anni a 7 e mezzo). In 7 anni e mezzo concludere un’inchiesta e celebrare l’udienza preliminare e i tre gradi di giudizio è praticamente impossibile: di fatto, l’abuso è depenalizzato anche nella sua versione patrimoniale.

 

9. Articolo 513 cpp (1997). L’articolo 513 del codice di procedura penale regola l’utilizzabilità delle dichiarazioni raccolte dal pm durante le indagini. Il 31 luglio 1997 destra e sinistra lo modificano radicalmente: se prima i giudici potevano utilizzare le accuse lanciate da Tizio a Caio in fase d’indagine anche se Tizio patteggiava la pena o si faceva giudicare separatamente da Caio con il rito abbreviato e non si presentava a ribadirle nel processo a Caio, d’ora in poi le dovranno cestinare. La norma transitoria applica la nuova regola retroattivamente, costringendo i giudici a rifare da capo tutti i processi, specie quelli di Tangentopoli. Che, col tempo che si perde, finiscono quasi tutti in prescrizione, o addirittura in assoluzione perché le prove sono state abolite per legge.

 

10. Giusto processo (1999). Nel 1998 la Consulta cancella il nuovo articolo 513 perché incostituzionale. Ma i partiti di destra e sinistra, terrorizzati dalla ricomparsa delle prove che speravano di aver seppellito per sempre, trasformano addirittura la legge incostituzionale in legge costituzionale e la infilano nella Carta a tempo di record (nove mesi per la doppia lettura Camera-Senato-Camera-Senato), all’articolo 111, ribattezzato «giusto processo»: è una delle prime mosse del governo D’Alema, sostenuto per l’occasione dal centro-destra. Le accuse, anche se a lanciarle è un semplice testimone, non valgono nulla se verbalizzate solo davanti al pm e non al giudice. Migliaia di processi in fumo, anche di mafia. Votano contro soltanto la Lega, il dipietrista Elio Veltri e cinque deputati prodiani.

 

11. Simeone-Saraceni (1998). Alla vigilia della sentenza definitiva del processo Enimont che porterebbe in carcere Forlani, Citaristi, Pomicino, Sama e Bisignani, destra e sinistra approvano in gran fretta la legge Simeone-Saraceni (uno di An, uno del Pds) che risparmia il carcere a chiunque debba scontare meno di 3 anni. Con la legge Gozzini, chi deve scontare una pena o un residuo pena inferiore a 3 anni può chiedere, dal carcere, di farlo in «affidamento in prova al servizio sociale» (cioè fuori). Con la Simeone-Saraceni, il condannato definitivo a meno di 3 anni resta a piede libero: pena sospesa finché la polizia non riesce a notificargli la condanna di persona, brevi manu. Poi l’interessato fa domanda di affidamento, il giudice di sorveglianza la esamina e decide se accoglierla o no, poi la polizia deve rintracciarlo un’altra volta e notificargli a mano il provvedimento. Così, se è negativo, al condannato basta non farsi trovare per restare libero per sempre, con pena sospesa sine die.

 

12. Carotti (1998). Le norme di accompagnamento al «giudice unico» istituito dal ministro Flick per sveltire i processi (abolite le preture e relative procure, giudice monocratico per i reati minori) sono raggruppate nel pacchetto Carotti (un deputato del Ppi), che allunga i processi. Infatti aggiunge una nuova fase di giudizio alle quattro già esistenti. Dopo le indagini preliminari e prima dell’udienza preliminare e dei tre gradi di giudizio, viene infilato il «deposito degli atti» (articolo 415bis del codice di procedura penale). Allo scadere delle indagini, anziché chiedere subito il rinvio a giudizio per gli indagati, il pm deve notificare loro un «avviso di conclusione delle indagini» con un riassunto delle accuse e depositare a loro disposizione tutte le carte dell’inchiesta. L’indagato ha 20 giorni per chiedere di essere sentito, presentare documentazione e memorie difensive, ordinare al pm nuove indagini. Così il pm deve riaprire le indagini per qualche altro mese o anno, e solo alla fine può finalmente esercitare l’azione penale. Col risultato di dilatare vieppiù i tempi già biblici della giustizia, vanificando l’effetto benefico della riforma sul giudice unico.

 

13. Legge Sofri (1998). Appena la Corte d’Appello di Milano respinge l’istanza di revisione delle condanne di Sofri, Bompressi e Pietrostefani per il delitto Calabresi, un gruppo di senatori di destra e sinistra presentano subito una legge che sposta il giudizio sulla revisione dei processi nella Corte d’Appello più vicina a quella dove si sono celebrati. Relatore della norma ad personam, il senatore avvocato di An Giuseppe Valentino. Così la revisione per Sofri & C. può essere riesaminata a Brescia e di qui, una volta ri-bocciata, a Venezia, dove finalmente si rifà il processo e Sofri & C. vengono ricondannati.

 

14. Legge Dell’Utri 1: patteggiamento in appello (1998). Nel dicembre 1998, in pieno processo d’appello al senatore Marcello Dell’Utri, condannato a Torino a 3 anni in primo grado per le false fatture di Publitalia, l’avvocato senatore Valentino, reduce dalla legge Sofri, ne presenta una pro Dell’Utri nel silenzio del centro-sinistra (una mano lava l’altra). La norma ripristina il patteggiamento in appello cancellato nel 1990 dalla Consulta. Ma Dell’Utri in appello non patteggia e viene di nuovo condannato, stavolta a 3 anni e 2 mesi: in caso di conferma in Cassazione, finirà in galera.

 

15. Legge Dell’Utri 2: patteggiamento in Cassazione (1999). Subito dopo, il 19 gennaio 1999, passa trasversalmente una norma transitoria alla legge Valentino che consente di patteggiare addirittura in Cassazione a chi non ha fatto in tempo in appello almeno per quei «procedimenti in cui è stata pronunciata sentenza di appello prima dell’entrata in vigore della legge». È proprio il caso del processo Dell’Utri, che sta per aprirsi in Cassazione. Così Dell’Utri patteggia, ottiene lo sconto, scende sotto i 3 anni e non finisce in galera.

 

16. Gip-gup (1999). Berlusconi e Previti, imputati per corruzione di giudici romani (processi Mondadori, Sme-Ariosto e Imi-Sir), vogliono liberarsi del gip milanese Alessandro Rossato, che ha firmato gli arresti dei magistrati corrotti e degli avvocati Fininvest corruttori e chiesto invano l’arresto di Previti (salvato dalla Camera, a maggioranza Ulivo). Ora spetta a Rossato, in veste di gup, condurre le udienze preliminari e decidere se mandare a giudizio gli imputati. Su proposta dell’onorevole avvocato Guido Calvi, legale di D’Alema, il centro-sinistra approva una legge che rende incompatibile la figura del gip con quella del gup: il giudice che ha seguito le indagini preliminari non potrà più seguire l’udienza preliminare e dovrà passarla a un collega, che ovviamente non conosce la carte e perderà un sacco di tempo. Così le udienze preliminari Imi-Sir e Sme, già iniziate dinanzi a Rossato, proseguono sotto la sua gestione e si chiuderanno a fine anno con i rinvii a giudizio degli imputati. Invece quella per Mondadori, non ancora iniziata, passa subito a un altro gup, Rosario Lupo, che proscioglie tutti gli imputati per insufficienza di prove (la Corte d’Appello ribalterà il verdetto li rinvierà a giudizio tutti, tranne uno: Berlusconi, dichiarato prescritto grazie alle attenuanti generiche).

 

17. Finanziamento ai partiti (1997-99). Il finanziamento pubblico è stato abolito dal referendum dell’aprile ’93. Ma nel dicembre dello stesso anno, rientra dalla finestra camuffato da «rimborso per le spese elettorali»: ogni cittadino contribuirà alle spese elettorali dei partiti (solo se superano il 3 per cento) con 1.600 lire pro capite (circa 1 euro). Ma i partiti non si accontentano. Il 2 gennaio ’97 destra e sinistra cambiano la legge: i cittadini potranno devolvere ai partiti il 4 per mille dell’Irpef. Ma quasi nessuno lo fa. Nel 1999, per evitare la bancarotta, i partiti tornano alla chetichella al finanziamento diretto dello Stato: 1 euro pro capite per le elezioni della Camera, del Senato, delle Regioni, del Parlamento europeo (il quorum per accedervi scende dal 3 all’1 per cento): cioè 4 euro a quinquennio. Che ben presto raddoppia a 2 euro per quattro elezioni a legislatura. Risultato: nel 2001 i partiti incasseranno la bellezza di 92.814.915 euro.

 

18. 41bis e supercarceri nelle isole (1997). Due dei 12 punti del «papello» consegnato nel 1992 da Totò Riina ai suoi referenti politici e istituzionali con le richieste dalla mafia allo Stato in cambio della fine delle stragi, dicevano così: «7) Chiusura super carceri. 8) Carcerazione vicino le case dei familiari». Detto, fatto. Nel 1997, il ministro Flick – con l’appoggio del centro-sinistra e nel silenzio del centro-destra – chiude le supercarceri di Pianosa e Asinara, che facevano impazzire i boss perché, reclusi nelle isole lontani centinaia di chilometri da casa, non riuscivano a comunicare i loro ordini all’esterno tramite parenti e avvocati. Compito molto più agevole ora che vengono tutti trasferiti nelle carceri continentali. E Pianosa e Asinara vengono «restituite al turismo».

 

19. Abolito l’ergastolo (1999). Altra bestia nera dei mafiosi è l’ergastolo. Infatti il papello ne chiede l’abolizione in tre punti: «1) Revisione sentenza maxiprocesso [che condannava a vita molti boss mafiosi]. 5) Riconoscimento benefici dissociati – Brigate rosse – per condannati per mafia [con i benefici per la dissociazione, si ottengono sconti di pena]. 6) Arresti domiciliari dopo 70 anni». Detto, fatto. Il pacchetto Carotti estende il rito abbreviato a tutti i delitti, anche quelli più gravi (stragi mafiose comprese). Chi accede all’abbreviato ha diritto allo sconto di un terzo della pena e, al posto dell’ergastolo, rischia al massimo 30 anni. Che poi diventano 20 con i benefici della Gozzini. E, siccome la gran parte dei boss sono stati arrestati all’indomani delle stragi del 1992-93, ne dovrebbero scontare poco più di una decina e potrebbero sperare in tempi brevi nei primi permessi premio. Il tutto mentre a Firenze e a Caltanissetta si celebrano i processi di primo grado e di appello per le stragi del 1992-’93. Solo grazie alle vibrate proteste dei magistrati antimafia e dei familiari delle vittime, il governo Amato ingrana la retromarcia e il 23 novembre 2000 vara un decreto per ripristinare l’ergastolo almeno per i delitti più orrendi.

 

20. Aboliti i pentiti (2001). Ancora il papello: «4. Riforma legge pentiti». Detto, fatto. Nel 2001 il governo Amato (ministro della Giustizia Piero Fassino) vara la «riforma» dei collaboratori di giustizia del 2001 che – sempre col consenso del centro-destra – stravolge un’altra delle conquiste che Falcone e Borsellino pagarono con la vita. La legge riduce sensibilmente i benefici per i mafiosi che collaborano con la giustizia; prevede una serie di sbarramenti per l’accesso ai programmi di protezione; e impone di raccontare ai giudici tutto ciò che sa nei primi 6 mesi di collaborazione. Del resto il ministro dell’Interno del governo D’Alema, Giorgio Napolitano, autentico ispiratore della legge, ha sostenuto che «i pentiti in Italia sono troppi». Non i mafiosi: i pentiti. «Con questa legge», commenta il procuratore di Palermo Piero Grasso, «al posto di un mafioso, non mi pentirei più». Infatti da allora molti vecchi pentiti ritrattano e tornano mafiosi; alcuni che stavano per parlare di trattative Stato-mafia e mandanti occulti delle stragi, si cuciono la bocca; e i nuovi pentiti si conteranno sulle dita di una mano.

 

21. Meno scorte per tutti (2000). Nel settembre 2000 una circolare del ministro dell’Interno Enzo Bianco ritira i presidi armati sotto le case delle persone più a rischio nella lotta a Cosa Nostra, camorra e ’ndrangheta (magistrati, testimoni, uomini simbolo dell’antimafia), sostituendoli con «ronde» di scarsa o nulla efficacia. Non più vigilanza fissa, ma servizi di tipo «dinamico dedicato». Niente più piantoni 24 ore su 24, ma pattuglie che «girano» di casa in casa e qualche telecamera. Il tutto per soddisfare «la crescente domanda di sicurezza della collettività», che imporrebbe «l’impiego delle forze di polizia sul territorio». Durissime proteste dai pm di Palermo, ma vane. Nel 2001, col governo Berlusconi 2, il ministro Scajola proseguirà sulla strada inaugurata da Bianco, tagliando anche le scorte a tutti i magistrati a rischio.

 

22. Indagini difensive (2001). Nella primavera 2001 Ulivo e Polo insieme votano la legge sulle indagini difensive, fortemente voluta dall’avvocatura organizzata nell’Unione camere penali: gli atti raccolti dagli avvocati difensori assumono lo stesso valore di quelli compiuti dal pm. Il quale però, per legge, ha l’obbligo di depositare tutte le carte, anche quelle favorevoli all’indagato, mentre l’avvocato ha l’obbligo deontologico di depositare solo gli elementi favorevoli al cliente che lo paga. In più, la legge consente al difensore di compiere addirittura «indagini preventive»: prim’ancora di essere indagato, chiunque abbia commesso un reato potrà far interrogare dal suo legale i testimoni del delitto. Quando poi gli inquirenti sentiranno il testimone, troveranno un uomo già «formattato» sulla versione della difesa, o in certi casi addirittura terrorizzato o comunque poco incline a collaborare con la giustizia. Una legge che incentiva l’inquinamento delle prove e l’intimidazione dei testimoni.

 

23. Omologhe societarie addio (2000). Il 24 novembre 2000 un emendamento del governo Amato alla legge 340 sulla «semplificazione di procedimenti amministrativi» abroga le omologhe societarie. Finora spettava ai tribunali vigilare sulle società di capitali, autorizzandone la nascita e le principali operazioni (aumenti di capitale, ripianamenti delle perdite, modifiche dell’oggetto sociale eccetera). Se i giudici scoprivano qualcosa di illegale nelle deliberazioni, negavano l’«omologa» a tutela dei soci e dei risparmiatori. Ora invece l’omologazione viene sottratta ai giudici e affidata ai notai. Un altro passo verso la totalederegulation della finanza allegra e sporca.

 

24. Fisco, carezze agli evasori (2001). Il 5 gennaio 2001 il governo Amato vara il decreto che riforma la legge penale tributaria e manda in pensione la 516/1982 («manette agli evasori»). Le «violazioni degli obblighi contabili», cioè le operazioni di sottofatturazione o di omessa fatturazione tipiche di commercianti, artigiani e professionisti, cioè le forme più diffuse di evasione, non integrano più il reato più grave di «dichiarazione feraudolenta» (pene fino a 6 anni), ma il più lieve di «dichiarazione infedele» (pene fino a 3 anni, con prescrizione assicurata e niente carcere). E poi, per commettere reato, il contribuente infedele deve superare una certa «soglia di non punibilità», altissima: la dichiarazione infedele è reato solo sopra i 100 mila euro di imposta evasa; la dichiarazione fraudolenta, superiore a 75 mila. Una gigantesca licenza di evadere. Da «manette agli evasori» a «carezze agli evasori

 

Centro-destra, governo Berlusconi 2

 

25. Rogatorie (2001). Berlusconi torna a Palazzo Chigi e fa subito approvare una legge che cancella le prove giunte dall’estero per rogatoria ai magistrati italiani, comprese ovviamente quelle che dimostrano le corruzioni dei giudici romani da parte di Previti & C. La legge 367/2001 stabilisce l’inutilizzabilità di tutti gli atti trasmessi da giudici stranieri che non siano «in originale» o «autenticati» con apposito timbro, che siano giunti via fax, o via mail o brevi manu o in fotocopia o con qualche vizio di forma. Anche se l’imputato non ha mai eccepito sulla loro autenticità, vanno cestinati. Poi, per fortuna, i tribunali scoprono che la legge contraddice tutte le convenzioni internazionali ratificate dall’Italia e tutte le prassi seguite da decenni in tutta Europa. E, siccome quelle prevalgono sulle leggi nazionali, disapplicano la legge sulle rogatorie, che resterà lettera morta.

 

26. Falso in bilancio (2002). Avendo cinque processi per falso in bilancio, il 28 settembre 2001 la Casa delle libertà approva la legge delega 61 che incarica il governo di riformare i reati societari. Il che avverrà all’inizio del 2002 coi decreti delegati: abbassano le pene da 5 a 4 anni per le società quotate e addirittura a 3 per le non quotate (prescrizione più breve, massimo 7 anni e mezzo per le prime e 4 e mezzo per le seconde; e niente più custodia cautelare né intercettazioni); rendono il falso per le non quotate perseguibile solo a querela del socio o del creditore; depenalizzano alcune fattispecie di reato (come il falso in bilancio presentato alle banche); fissano amplissime soglie di non punibilità (per essere reato, il falso in bilancio dovrà superare il 5 per cento del risultato d’esercizio, l’1 per cento del patrimonio netto, il 10 per cento delle valutazioni. Così tutti i processi al Cavaliere per falso in bilancio vengono cancellati: o perché manca la querela dell’azionista (B. non ha denunciato B.), o perché i falsi non superano le soglie («il fatto non è più previsto dalla legge come reato»), o perché il reato è ormai estinto grazie alla nuova prescrizione lampo.

 

27. Mandato di cattura europeo (2001). Unico fra quelli dell’Ue, il governo Berlusconi rifiuta di ratificare il «mandato di cattura europeo», ma solo relativamente ai reati finanziari e contro la pubblica amministrazione. Secondo Newsweek, Berlusconi «teme di essere arrestato dai giudici spagnoli» per l’inchiesta su Telecinco. L’Italia ottiene di poter recepire la norma comunitaria soltanto dal 2004.

 

28. Il giudice trasferito (2001). Il 31 dicembre, mentre gli italiani festeggiano il capodanno, il ministro della Giustizia Roberto Castelli, su richiesta dei difensori di Previti, nega contro ogni prassi la proroga in tribunale al giudice Guido Brambilla, membro del collegio che conduce il processo Sme-Ariosto, e dispone la sua «immediata presa di possesso» presso il Tribunale di sorveglianza dov’è stato trasferito da qualche mese, senza poter completare i dibattimenti già avviati. Così il processo Sme dovrebbe ripartire da zero dinanzi a un nuovo collegio. Ma poi interviene il presidente della Corte d’Appello con una nuova «applicazione» di Brambilla in tribunale sino alla fine del 2002.

 

29. Cirami (2002). I difensori di Previti e Berlusconi chiedono alla Cassazione di spostare i loro processi a Brescia perché a Milano l’intero tribunale sarebbe prevenuto contro di loro. E, per oliare meglio il meccanismo, reintroducono la «legittima suspicione» per motivi di ordine pubblico, vigente un tempo, quando i processi scomodi traslocavano nei «porti delle nebbie» per riposarvi in pace. È la legge Cirami 248, approvata il 5 novembre 2002. Ma nemmeno questa funziona: la Cassazione, nel gennaio 2003, respinge la richiesta di trasferire i processi a Berlusconi: il tribunale di Milano è sereno e imparziale.

 

30. Patteggiamento allargato (2003). Sfumato il trasloco dei processi, bisogna inventarsi qualcosa per rallentarli prima che arrivino le sentenze, intanto si inventerà qualcos’altro: ecco dunque, nell’estate 2003, una nuova legge ad personam, quella sul patteggiamento allargato, che consentirà a qualunque imputato di chiedere 45 giorni di tempo per valutare se patteggiare o meno, guadagnando tempo fino a dopo le vacanze. La norma diventa legge l’11 giugno 2003: Berlusconi ormai è salvo grazie al lodo Schifani, ma Previti no. Dunque annuncia che utilizzerà la nuova legge sul patteggiamento allargato. Così i giudici devono dargli un mese e mezzo di tempo per decidere se patteggiare o meno. Non lo farà, ovviamente, ma intanto i processi sono sospesi fino a settembre-ottobre.

 

31. Lodo Maccanico-Schifani (2003). Le sentenze Sme e Mondadori incombono. Su proposta del senatore della Margherita Antonio Maccanico, il 18 giugno 2003 la Casa delle libertà approva la legge 140, primo firmatario Renato Schifani, che sospende sine die i processi ai presidenti della Repubblica, della Camera, del Senato, del Consiglio e della Consulta (il provvedimento contiene anche la legge Boato, trasversale, che vieta ai giudici di utilizzare senza la previa autorizzazione delle Camere le intercettazioni «indirette», cioè disposte su utenze di privati cittadini, quando questi parlano con parlamentari). I processi a Berlusconi si bloccano in attesa che la Consulta esamini le eccezioni di incostituzionalità sollevate dal tribunale di Milano. E ripartono nel gennaio 2004, quando la Corte boccia il «lodo».

 

32. Ex Cirielli (2005). Il 29 novembre 2005 la Casa delle libertà vara la legge ex Cirielli (l’ha disconosciuta persino il suo proponente), che riduce la prescrizione per gli incensurati e trasforma in arresti domiciliari la detenzione per gli ultrasettantenni (Previti ha appena compiuto 70 anni, Berlusconi sta per compierli). La legge porta i reati prescritti da 100 a 150 mila all’anno, decima i capi di imputazione del processo Mediaset (la frode fiscale passa da 15 a 7 anni e mezzo) e annienta il processo Mills (la corruzione anche giudiziaria si prescrive non più in 15 anni, ma in 10).

 

33. Condono fiscale (2002). La legge finanziaria 2003 varata nel dicembre 2002 contiene il condono tombale. Berlusconi giura che non ne faranno uso né lui né le sue aziende. Invece Mediaset ne approfitta subito per sanare le evasioni di 197 milioni di euro contestate dall’Agenzia delle entrate pagandone appena 35. Anche Berlusconi usa il condono per cancellare con appena 1.800 euro un’evasione di 301 miliardi di lire contestata dai pm di Milano.

 

33. Condono ai coimputati (2003). Col decreto 143 del 24 giugno 2003, presunta «interpretazione autentica» del condono, il governo ci infila anche coloro che hanno «concorso a commettere i reati», anche se non hanno firmato la dichiarazione fraudolenta. Cioè il governo Berlusconi salva anche i 9 coimputati del premier, accusati nel processo Mediaset di averlo aiutato a evadere con fatture false o gonfiate.

 

34. Pecorella (2006). Salvato dalla prescrizione nel processo Sme grazie alle attenuanti generiche, Berlusconi teme che in appello gli vengano revocate, con conseguente condanna. Così il suo avvocato Gaetano Pecorella, presidente della commissione Giustizia della Camera, fa approvare nel dicembre 2005 la legge che abolisce l’appello, ma solo quando lo interpone il pm contro assoluzioni o prescrizioni. In caso di condanna in primo grado, invece, l’imputato potrà ancora appellare. Il presidente Ciampi respinge la Pecorella in quanto incostituzionale. Berlusconi allunga di un mese la scadenza della legislatura per farla riapprovare tale e quale (legge 46) nel gennaio 2006. Ciampi stavolta è costretto a firmarla. Ma poi la Consulta la boccia in quanto incostituzionale.

 

35. Legge ad Legam (2005). Dal 1996 la procura di Verona indaga su una quarantina tra dirigenti politici e attivisti della Lega Nord sparsi fra il Piemonte, la Liguria, la Lombardia e il Veneto, accusati di aver organizzato una formazione paramilitare denominata Guardia nazionale padana, con tanto di divisa: le celebri camicie verdi, i guardiani della secessione. Processo che all’inizio vede imputati anche Bossi, Maroni, Borghezio, Speroni, Calderoli e altri quattro alti dirigenti che erano anch’essi parlamentari all’epoca dei fatti. I capi di imputazione formulati dal procuratore Guido Papalia sulla scorta di indagini della Digos e di copiose intercettazioni telefoniche, in cui molti protagonisti parlavano di fucili e armi varie, sono tre: attentato alla Costituzione, attentato all’unità e all’integrità dello Stato, costituzione di una struttura paramilitare fuorilegge. Ma i primi due vengono depenalizzati dal centro-destra con una leggina «ad Legam» nel 2005, con la scusa di cancellare i «reati di opinione», retaggio del codice «fascista»: così gli attentati alla Costituzione e all’unità e all’integrità dello Stato non sono più reati, salvo in caso di uso effettivo della violenza. Resta l’ultimo reato, la costituzione di banda armata a scopo politico, ma a questo – come vedremo – provvederà il terzo governo Berlusconi.

 

36. Legge anti-Csm (2002). Castelli riforma subito il Csm, riducendone i componenti e le competenze con la scusa di colpirne il sistema correntizio. La legge passa il 27 marzo 2002: nuovo sistema elettorale (collegio elettorale unico, nessuna lista di corrente, candidature individuali) e taglio degli organici da 30 a 24 membri (8 laici e 16 togati, di cui 10 giudici, 2 magistrati di Cassazione e solo 4 pm). Il Csm era passato da 21 a 30 membri nel 1975, quando i giudici in Italia erano meno di 6 mila. Ora che sono, compresi gli onorari, 18 mila, si torna indietro e si scende a 24. Una controriforma fatta apposta per far collassare il Csm, svilirlo e ridurlo alla paralisi e al silenzio.

 

37. Ordinamento giudiziario Castelli (2005). Il 1° dicembre 2004 la Casa delle libertà approva la legge delega del ministro Castelli che riforma l’ordinamento giudiziario. Il 16 dicembre Ciampi la respinge perché «palesemente incostituzionale» in almeno quattro punti. Ma la maggioranza la riapprova tale e quale, salvo lievissime modifiche, il 25 luglio 2005. Scompaiono soltanto le norme più dichiaratamente incostituzionali: quella che sgancia la polizia giudiziaria dal pm per sottoporla in esclusiva al governo; quella che affida al parlamento la scelta delle priorità dei reati da perseguire; quella che affida alla Cassazione un ruolo di guida e controllo gerarchico su tutta la magistratura, nelle progressioni in carriera e nelle scuole di formazione (dirette da un comitato di membri eletti col «concerto» del ministro). Per il resto, tutto confermato. Si torna agli anni più bui della giustizia italiana: una carriera selettiva che imbriglia i giudici in un’intricata rete di concorsi formalistici; uno svilimento delle competenze del Csm; una ristrutturazione verticistica e gerarchica delle procure, con il capo dominus assoluto dell’azione penale e il «potere diffuso» dei sostituti ridotto al nulla; una separazione surrettizia delle carriere di pm e giudici, accompagnata da «esami psico-attitudinali» per i neomagistrati, già previsti nel piano della P2; il divieto per i pm di spiegare le loro inchieste alla stampa; e infine l’obbligatorietà dell’azione disciplinare su qualunque esposto venga presentato contro un magistrato, anche il più infondato e pretestuoso. Per fortuna, la legislatura scade nel 2006 prima che il governo abbia il tempo di esercitare la delega con i decreti attuativi. Basterebbe che il centro-sinistra, come ha promesso agli elettori, cancellasse la Castelli e l’incubo svanirebbe. Ma non sarà così.

 

38-39. Due norme anti-Caselli più una (2004-2005). Gian Carlo Caselli, procuratore a Palermo, ha osato processare anche i politici mafiosi. Bisogna punirlo. Il governo Berlusconi prima lo licenzia nel 2002 da rappresentante dell’Italia nella nascente procura europea Eurojust. Poi, nel 2004, quando si candida a procuratore nazionale antimafia al posto di Pier Luigi Vigna, approva tre norme (una contenuta nell’ordinamento giudiziario, più altre due) per sbarrargli la strada e favorire l’altro candidato, Piero Grasso. L’ordinamento Castelli stabilisce, di fatto, che per diventare procuratore nazionale antimafia bisogna avere meno di 66 anni. Caselli compirà 66 anni il 9 maggio 2005 e Vigna scade il 15 gennaio 2005. Dunque la Castelli proroga pure il mandato a Vigna fino al 1° agosto 2005, quando compirà 72 anni. Così Caselli avrà già 66 anni e non potrà concorrere a succedergli. Come abbiamo visto, però, Ciampi boccia la Castelli. E il procuratore torna in pista. Ma il 30 dicembre il governo infila nel decreto «milleproroghe» un articoletto di tre righe che riproroga Vigna fino ad agosto. Seconda norma ad personam contro Caselli. Alla Camera, in sede di conversione, le assenze nella Casa delle libertà consentono al centro-sinistra di bocciarla, ma Rifondazione si astiene e la norma passa. Senza il nuovo ordinamento Castelli, però Caselli può comunque concorrere perché non è ancora in vigore il limite dei 66 anni: basta che il Csm faccia subito la nomina e il problema è risolto. Ecco dunque un emendamento all’ordinamento giudiziario, firmato da Luigi Bobbio di An, che prevede l’immediata entrata in vigore dei nuovi limiti di età. Perché – spiega Bobbio, spudorato – «dobbiamo avere la certezza che Caselli non vada alla superprocura». È la terza e decisiva norma ad personam contro Caselli: il Csm nomina Grasso, unico candidato superstite. Nel 2007 la Consulta dichiarerà incostituzionale la legge anti-Caselli. Tra i primi a felicitarsene – con quasi due anni di ritardo – sarà Piero Grasso: «Sono contento, quella era una legge che non ho condiviso». L’ha semplicemente usata. Unico magistrato della storia repubblicana nominato da un governo. E che governo.

 

40. Legge pro Carnevale (2004). Se Caselli non deve più occuparsi di mafia, la Casa delle libertà si prodiga per rimettere la toga a un giudice che ha ben meritato nel settore: Corrado Carnevale. L’ex «ammazzasentenze» si è dimesso dalla magistratura nel 2002 dopo la condanna in appello per concorso esterno in associazione mafiosa. Ma poi la Cassazione ha annullato la condanna. Nel dicembre 2003 spunta una normetta ad personam che consente il rientro in servizio dei dipendenti pubblici sospesi o autopensionati in seguito a procedimenti penali e poi assolti. Proprio il caso di Carnevale. La norma è bipartisan: Santanchè (An), Maccanico (Margherita), Mastella (Udeur), Villetti (Sdi), Boato e Luana Zanella (Verdi). E viene approvata come emendamento alla finanziaria il 24 dicembre 2003 da tutti i partiti, Ds esclusi. Dal 2006 l’uomo che cassava le sentenze contro i boss, riceveva avvocati e imputati di mafia anche a casa propria, definiva «cretino» e «faccia da caciocavallo» Falcone e considerava Borsellino un incapace, è di nuovo un magistrato e viene reintegrato in Cassazione come presidente di una sezione civile per altri 6 anni e mezzo: cioè fino al 2013, quando ne avrà 83 (8 in più dell’età massima pensionabile per i magistrati). Per uno come lui, 83 anni non sono mai troppi. Per Caselli, invece, bastano e avanzano 66.

 

41. La trappola del 41bis (2002). Il punto 2 del papello di Riina recitava: «Annullamento decreto 41bis». Ma il 19 dicembre 2002 il governo Berlusconi fa approvare la legge 279 che trasforma il 41bis da provvedimento straordinario, rinnovato di semestre in semestre in via amministrativa dal ministro della Giustizia, in una misura stabile dell’ordinamento penitenziario. Pare un durissimo attacco alla mafia. Invece, di fatto, la nuova legge sortisce l’effetto opposto a quello dichiarato: centinaia di boss otterranno la revoca del 41bis dai Tribunali di sorveglianza. Per due motivi. 1) Una serie di difficoltà interpretative nate dalla nuova legge, trasformate dai difensori dei boss mafiosi in altrettante crepe per scardinare il sistema del carcere duro. 2) Se prima era difficilissimo per i boss far revocare il 41bis, visto che i tempi dei ricorsi erano più lunghi di quelli delle proroghe semestrali, e ogni volta bisognava ricominciare daccapo, da quando il regime carcerario è definitivo c’è tutto il tempo per chiedere e ottenere l’annullamento del carcere duro.

 

42. Illeciti contabili condonati (2005). Nella finanziaria del 2006, varata nel dicembre 2005, la Casa delle libertà introduce un colpo di spugna per i politici e gli amministratori pubblici condannati dalla Corte dei Conti. Il meccanismo del condono – denunciato dal procuratore generale della Corte Vincenzo Apicella – è semplice. I condannati nei giudizi di primo grado per «danno erariale» (cioè, in larga parte, i tangentisti che dovrebbero restituire il maltolto) possono chiedere alle sezioni d’Appello della Corte di definire il giudizio pagando una somma tra il 10 e il 20 per cento del danno quantificato nella sentenza. Il giudice, sentito il procuratore, può accogliere la richiesta nella misura massima del 30 per cento. Un bel regalo ai furbetti della pubblica amministrazione: un condono da centinaia di milioni.

 

43. Raddoppio del finanziamento ai partiti (2002). Per le elezioni del 2001 i partiti hanno incassato 93 milioni di euro: più del quadruplo di quanto avevano speso per quelle del 1996 (20 milioni). Ma i soldi non bastano mai. Così nel 2002, mentre si scontrano in parlamento e in piazza sulle leggi vergogna del governo Berlusconi, destra e sinistra presentano una leggina bipartisan per festeggiare l’arrivo dell’euro: con un cambio di favore, si passa da 800 lire a 1 euro per ogni elettore da moltiplicare per quattro (Camera, Senato, Europa, Regioni). E attenzione: gli elettori a cui succhiare i soldi non si calcolano su quelli che votano (37 milioni), ma su quelli iscritti alle liste elettorali della Camera (50,5 milioni): vale anche per le elezioni al Senato, dove però votano 4 milioni di elettori in meno. Per evitare che si noti troppo la sproporzione fra le spese effettivamente sostenute nelle campagne elettorali e i presunti «rimborsi» incassati, i tesorieri dei partiti gonfiano pure le spese: cioè le quadruplicano, infilando nei bilanci elettorali ogni sorta di esborsi per viaggi, pranzi, telefoni. Così, se le elezioni del 1994 erano costate 36 milioni, quelle del 1996 appena 20 milioni, quelle del 2006 addirittura 93 milioni, quelle del 2008 ne costeranno la bellezza di 136 (ma i partiti ne riceveranno 503 in cinque anni: 10 euro per ogni elettore, con un guadagno netto del 270 per cento sulle spese effettivamente sostenute). Ultima chicca: la nuova norma assicura i rimborsi per tutti e cinque gli anni della legislatura, anche se questa si interrompe anzitempo con le elezioni anticipate. Quella nata dalle elezioni del 2006 vinte di misura dall’Unione di Prodi, per esempio, si chiuderà già nel gennaio 2008, ma i partiti incasseranno i rimborsi per le elezioni 2006 fino al 2011, cumulandoli con quelli della nuova legislatura nata nel 2008. Di aumento in aumento, di ritocco in ritocco, nel 2006 il totale dei rimborsi elettorali raggiunge la cifra record di 200 milioni. Se nel 1993 ogni italiano versava ai partiti 1,1 euro, nel 2006 ne sborsa 10. Nel dicembre 2009 la Corte dei Conti rivelerà che nei 15 anni della Seconda Repubblica i partiti hanno prelevato dalle casse dello Stato un totale di 2,2 miliardi di euro.

 

44. Condonate le tangenti (2006). Nel febbraio 2006 il governo Berlusconi si congeda dalla legislatura con un’ultima leggina vergogna. Che passa quasi del tutto inosservata, anche perché fa molto comodo a tutti i partiti: quella che rende possibile la cartolarizzazione e la cessione a terzi, senz’alcun limite, dei loro crediti; esenta da responsabilità civile i loro amministratori; costituisce un «fondo di garanzia» per pagarne i debiti; e soprattutto decuplica da 5 a 50 mila euro il tetto sotto il quale i partiti possono ricevere versamenti da privati senza l’obbligo di dichiararli nella certificazione annua al parlamento e senza rischiare l’incriminazione per finanziamento illecito. È un’enorme franchigia per i fondi neri ai partiti e ai singoli politici, che potranno così incassare clandestinamente fino a un equivalente di 100 milioni l’anno pro capite senza più commettere reato. Il tutto mentre la controriforma elettorale Calderoli – proporzionale con liste bloccate, senza preferenze – esime i candidati dall’incomodo (e dalle spese) della propaganda elettorale.

 

45. Frattini (2002). Il 28 febbraio 2002 la Casa delle libertà approva la legge Frattini sul conflitto d’interessi: chi possiede aziende e va al governo, ma di quelle aziende è soltanto il «mero proprietario», non è in conflitto d’interessi e non è costretto a cederle. Unica conseguenza per il premier: deve lasciare la presidenza del Milan

 

46. Gasparri 1(2003). In base alla nuova sentenza della Consulta del 2002, entro il 31 dicembre 2003 Rete4 deve essere spenta e passare sul satellite. Il 5 dicembre la Casa delle libertà approva la legge Gasparri sulle tv: Rete4 può seguitare a trasmettere «ancorché priva di titolo abilitativo», cioè anche se non ha più la concessione dal 1999; il tetto antitrust del 20 per cento sul totale delle reti non va più calcolato sulle 10 emittenti nazionali, ma su 15 (compresa Telemarket). Dunque Mediaset può tenersi le sue tre tv. Quanto al tetto pubblicitario del 20 per cento, viene addirittura alzato grazie al trucco del «Sic», che include un panel talmente ampio di situazioni da sfiorare l’infinito. Confalonieri calcola che Mediaset potrà espandere i ricavi di 1-2 miliardi di euro l’anno. Ma il 16 dicembre Ciampi rispedisce la legge al mittente: è incostituzionale.

 

47. Salva-Rete4 (2003). Mancano due settimane allo spegnimento di Rete4. Alla vigilia di Natale, Berlusconi firma un decreto salva-Rete4 (n.352) che concede alla sua tv l’ennesima proroga semestrale, in attesa della nuova Gasparri.

 

48. Gasparri 2 (2004). La nuova legge approvata il 29 aprile 2004, molto simile a quella bocciata dal Quirinale, assicura che Rete4 non sfora il tetto antitrust perché entro il 30 aprile il 50 per cento degli italiani capteranno il segnale del digitale terrestre, che garantirà loro centinaia di nuovi canali. Poi però si scopre che, a quella data, solo il 18 per cento della popolazione riceve il segnale digitale. Ma l’Agcom dà un’interpretazione estensiva della norma: basta che in un certo luogo arrivi il segnale digitale di una sola emittente, per considerare quel luogo totalmente digitalizzato. Rete4 è salva, Europa 7 è ancora senza frequenze.

 

49. Decoder di Stato (2004). Per gonfiare l’area del digitale, la finanziaria per il 2005 varata nel dicembre 2004 prevede un contributo pubblico di 150 euro nel 2004 e di 70 nel 2005 per chi acquista il decoder per la nuova tecnologia televisiva. Fra i principali distributori di decoder c’è Paolo Berlusconi, fratello di Silvio, titolare di Solaris (che commercializza il decoder Amstrad).

 

50. Salva-decoder (2003). Il digitale terrestre è un affarone per Mediaset, che vi trasmette partite di calcio a pagamento, ma teme il mercato nero delle tessere taroccate: prontamente, il 15 gennaio 2003, il governo che ha depenalizzato il falso in bilancio porta fino a 3 anni con 30 milioni di multa la pena massima per smart card fasulle per le pay tv.

 

51. Salva-Milan (2002). Col decreto 282/2002, convertito in legge il 18 febbraio, il governo Berlusconi consente alle società di calcio, quasi tutte indebitatissime, di ammortizzare sui bilanci 2002 e spalmare nei dieci anni successivi la svalutazione dei cartellini dei giocatori. Il Milan risparmia 242 milioni di euro.

 

52. Salva-diritti tv (2006). Forza Italia blocca il disegno di legge, appoggiato da tutti gli altri partiti di destra e di sinistra, per modificare il sistema di vendita dei diritti tv del calcio in senso «collettivo» per non penalizzare le società minori privilegiando le maggiori. Il sistema resta dunque «soggettivo», a tutto vantaggio dei maggiori club: Juventus, Inter e naturalmente Milan.

 

53. Via la tassa di successione (2001). Il 28 giugno 2001 il governo Berlusconi abolisce la tassa di successione per i patrimoni superiori ai 350 milioni di lire (fino a quella cifra l’imposta era già stata abrogata dall’Ulivo). Per combinazione, il premier ha cinque figli e beni stimati in 25 mila miliardi di lire.

 

54. Autoriduzione fiscale (2004). Nel 2003, secondo Forbes, Berlusconi è il 45° uomo più ricco del mondo con un patrimonio personale di 5,9 miliardi di dollari. Nel 2005 balza al 25° posto con 12 miliardi. Così, quando a fine 2004 il suo governo abbassa le aliquote fiscali per i redditi dei più abbienti, L’espresso calcola che Berlusconi risparmierà 764.154 euro all’anno.

 

55. Plusvalenze esentasse (2003). Nel 2003 Tremonti vara una riforma fiscale che detassa le plusvalenze da partecipazione. La riforma viene subito utilizzata dal premier nell’aprile 2005 quando cede il 16,88 per cento di Mediaset detenuto da Fininvest per 2,2 miliardi di euro, risparmiando 340 milioni di tasse.

 

56. Sondaggi a spese nostre. Sondaggi a raffica sul presidente del Consiglio Silvio Berlusconi pagati con soldi pubblici: la brillante idea è di due senatori di Forza Italia, Salvatore Lauro e Mario Ferrara, che ne ricavano un emendamento alla legge finanziaria 2005, subito approvato dalla Cdl. In discussione in realtà erano il finanziamento e il programma delle celebrazioni per Cristoforo Colombo, ma nottetempo una mano furtiva ha inserito un ultimo comma che sembra fatto su misura per il premier. Il quale potrà consultare «enti o istituti di ricerca, pubblici o privati, istituti demoscopici nonché consulenti dotati di specifica professionalità». Per compensare tutti questi soggetti, la finanziaria stanzia 6 milioni di euro. Scopo ufficiale: monitorare costantemente «le politiche pubbliche adottate dal governo».

 

57. Villa abusiva con condono (2004). Il 6 maggio 2004, mentre La Nuova Sardegna svela gli abusi edilizi a Villa Certosa, Berlusconi fa approvare due decreti. Il primo stabilisce l’approvazione del piano nazionale antiterrorismo e contiene anche un piano (segretato) per la sicurezza di Villa Certosa. Il secondo individua la residenza di Berlusconi in Sardegna come «sede alternativa di massima sicurezza per l’incolumità del presidente del Consiglio e per la continuità dell’azione di governo». Ed estende il beneficio anche a tutte le altre residenze del premier e famiglia sparse per l’Italia. Così si bloccano le indagini sugli abusi edilizi nella sua villa in Costa Smeralda. Poi nel 2005 il ministro dell’Interno Pisanu toglie il segreto. Ma ormai è tardi. La legge 208 del 2004, varata in tutta fretta dal governo Berlusconi, estende il condono edilizio del 2003 anche alle zone protette: come quella in cui sorge la sua villa. Prontamente la Idra Immobiliare, proprietaria delle residenze private del Cavaliere, presenta dieci diverse richieste di condono edilizio. E riesce a sanare tutto per la modica cifra di 300 mila euro. Nel 2008 il tribunale di Tempio Pausania chiude il procedimento per gli abusi edilizi perché in gran parte condonati grazie a un decreto voluto dal mero proprietario della villa.

 

58. Ad Mediolanum (2005). Nonostante le resistenze del ministro del Welfare, Roberto Maroni, Forza Italia impone una serie di norme favorevoli alle compagnie assicurative nella riforma della previdenza integrativa e complementare (decreto legge 252/2005), fra cui lo spostamento di 14 miliardi di euro verso le assicurazioni, alcune norme che forniscono fiscalmente la previdenza integrativa individuale (a beneficio anche di Mediolanum, di proprietà di Berlusconi e Doris) e soprattutto lo slittamento della normativa al 2008 per assecondare gli interessi della potente lobby degli assicuratori (di cui Mediolanum è una delle capofila). Intanto, nel gennaio del 2004, le Poste Italiane con un appalto senza gara hanno concesso a Mediolanum l’utilizzo dei 16 mila sportelli postali sparsi in tutta Italia.

 

59. Ad Mondadori 1 (2005). Il 9 giugno 2005 il ministro dell’Istruzione Letizia Moratti stipula un accordo con le Poste Spa per il servizio «Postescuola»: consegna e ordinazione – per telefono e online – dei libri di testo destinati agli alunni della scuola secondaria. Le case editrici non consegneranno i loro volumi direttamente, ma tramite la Mondolibri Bol, una società posseduta al 50 per cento da Arnoldo Mondadori Editore Spa, di cui è mero proprietario Berlusconi. L’Antitrust esamina il caso, ma pur accertando l’indubbio vantaggio per le casse Mondadori, non può censurare l’iniziativa perché a firmare l’accordo non è stato il premier, ma la Moratti.

 

60. Ad Mondadori 2 (2005). L’8 febbraio 2005 scatta l’operazione «E-book», per il cui avvio il governo stanzia 3 milioni. E a chi affidano la sperimentazione i ministri Moratti (Istruzione) e Stanca (Innovazione)? A Mondadori e Ibm: la prima è di Berlusconi, la seconda ha avuto come vicepresidente Stanca fino al 2001.

 

61-62. Due scudi fiscali (2001-2003). Il 25 settembre 2001 il governo Berlusconi vara il decreto Tremonti 350 sul rientro dei capitali guadagnati e/o detenuti all’estero: quelli illegalmente esportati, ma spesso anche illegalmente accumulati commettendo reati. Si tratta contemporaneamente di una legge «ad aziendam», «ad aziendas», ma soprattutto «ad mafiam». Chiunque vorrà rimpatriare i propri tesori parcheggiati oltre frontiera potrà farlo depositandoli presso una banca italiana che funge anche da «mediatore»: cioè trattiene, per conto dello Stato, una modica tassa del 2,5 per cento (invece delle normali aliquote d’imposta che arrivano al 50-60 per cento) e rilascia al cliente una «dichiarazione riservata» di ricevuta. Ma la novità più ghiotta è l’assoluto anonimato garantito a chi compie l’operazione: un regalo che non ha precedenti nella storia dei ben 22 fra condoni e amnistie del dopoguerra. Guardacaso, Berlusconi è imputato per 1.500 miliardi di lire in nero su 64 società del «comparto estero» Fininvest. Teoricamente, versando all’erario appena 50 miliardi di lire, può far rientrare tutto quel denaro senza neppure farlo sapere. Il risultato dello scudo, comunque, è deludente, ben al di sotto delle aspettative: appena 1.600 milioni di euro. Così nel 2003 Tremonti concede il bis, riaprendo i termini per scudare i capitali rimpatriati. Ma anche il secondo scudo porta un misero gettito nelle casse dello Stato: 497 milioni appena. Alla fine, tra il primo e il secondo, si incasseranno circa 2 miliardi di euro, a fronte di 77 miliardi rientrati, almeno sulla carta, in Italia (31,7 «regolarizzati» più 46 rimpatriati).

 

63. Esenzione Ici pro Chiesa (2005). Nella finanziaria approvata nel dicembre 2005 per il 2006, la Cdl stabilisce che le confessioni religiose che hanno sottoscritto l’Intesa con lo Stato italiano non pagheranno l’Ici nemmeno sugli immobili a fini commerciali. Un ottimo sistema per comprare, a spese dei contribuenti, i voti controllati dalla Cei in vista delle elezioni del 2006. L’esenzione riguarda anche le associazioni no profit. La Cgil stima un enorme buco nei bilanci dei comuni: non meno di 500-700 milioni di euro l’anno.

 

64. Inquinamento legalizzato (2001-2002). Nel 2001 la procura di Firenze apre un’inchiesta sui lavori per l’Alta velocità in Toscana: durante gli scavi delle gallerie, è stato inquinato l’ambiente, intaccando le falde acquifere. A risolvere il problema all’italiana, provvede la legge Lunardi 443/2001: terre e rocce da scavo, anche di gallerie, non costituiscono più rifiuti e possono essere utilizzate per riempire cave o depressioni del terreno, anche se contaminate da sostanze inquinanti. Ma solo se la composizione media dell’intera massa non presenta una concentrazione di inquinanti superiore ai limiti massimi previsti dalle leggi vigenti. Il trucco c’è e si vede: basta diluire l’inquinamento aumentando il volume della massa considerata. In pratica una tonnellata di materiali contaminati viene mischiata con 100 tonnellate di rocce «pulite» e il gioco è fatto: tutto risulta in regola, anche se l’inquinamento è stato soltanto mascherato, non certo eliminato. Il 7 marzo 2002 il governo fa di più e di peggio: dichiara con apposito decreto non più inquinanti le emissioni tossiche dello stabilimento Enichem di Gela, sequestrato dalla magistratura. L’impianto riapre. Salvi tutti gli indagati. Nell’agosto 2002 concede il tris con un’«interpretazione autentica» del concetto di rifiuto: migliaia di tonnellate di residui di produzione, anche pericolosi, con un semplice tratto di penna vengono «riabilitati». All’improvviso non sono più rifiuti, ma sostanze riutilizzabili seguendo norme meno rigorose e cautelative. Più veleno per tutti.

 

Centro-sinistra (2006-2008), governo Prodi 2

 

65. Indulto extralarge (2006). Nel luglio 2006 centro-sinistra e centro-destra approvano l’indulto Mastella (contrari Idv, An, Lega, astenuto il Pdci): 3 anni di sconto di pena a chi ha commesso reati prima del 2 maggio di quell’anno. Lo sconto vale anche per i reati contro la pubblica amministrazione (che sul sovraffollamento della carceri non incidono per nulla), compresa la corruzione giudiziaria, altrimenti Previti resterebbe agli arresti domiciliari. Una nuova legge ad personam che regala anche al Cavaliere un «bonus» di tre anni da spendere nel caso in cui fosse condannato in via definitiva.

 

66. Ordinamento Mastella (2006-2007). Dopo aver solennemente promesso agli elettori di cancellare l’ordinamento giudiziario Castelli prima che entrino in vigore i decreti delegati, il ministro della Giustizia Clemente Mastella si mette d’accordo col centro-destra per farlo passare quasi tutto, con qualche modesta correzione. Entrano in vigore inalterate le norme che verticizzano le procure e riformano gli illeciti disciplinari dei magistrati. I ritocchi riguardano gli altri 8 decreti delegati di Castelli. Il risultato finale è devastante: ciascun magistrato dovrà frequentare ogni quattro anni una speciale Scuola della magistratura (tre le sedi: a Bergamo, a Firenze e a Benevento, collegio elettorale del ministro) e, al termine, superare ogni volta un esame di professionalità. Dopo una bocciatura subirà il blocco dello stipendio; dopo due bocciature potrà essere revocato dalle funzioni; alla terza bocciatura dovrà essere rimosso. Un corso speciale, con annesso esame attitudinale, dovrà subire chi vuole passare dalla requirente alla giudicante o viceversa: e potrà farlo solo dopo cinque anni di servizio nella funzione precedente, e solo se cambierà distretto. Di fatto, è la separazione della carriere (mascherata da «distinzione delle funzioni»). Non solo: chi ricopre incarichi direttivi (procuratore capo, presidente di Tribunale o di Corte d’Appello) o semidirettivi (procuratore aggiunto) non può durare in carica più di 8 anni, poi è obbligato a cambiare sede oppure perde il posto e viene degradato a (per esempio a sostituto procuratore): una norma che decapita decine di procure e tribunali per mesi e mesi. Non basta ancora: per partecipare al concorso di accesso alla magistratura non basterà più la laurea in legge: bisognerà essere avvocati da almeno tre anni o giudici di pace o magistrati amministrativi o avere svolto incarichi in università o in uffici pubblici. Il che impedirà a chi proviene dai ceti più umili e non può permettersi di gravare sulla sua famiglia, di indossare la toga. Ultima sciagura: i magistrati di prima nomina (quelli che hanno già svolto un anno e mezzo di «uditorato», cioè di tirocinio accanto a un collega esperto e anziano) non potranno più fare i pm né i giudici monocratici. Siccome le sedi più disagiate, di solito, si reggono proprio sui «giudici ragazzini» distribuiti dal Csm nei posti vacanti messi a concorso per le toghe di prima nomina, mentre in seguito sono i magistrati a scegliere dove lavorare, il risultato sarà disastroso: nel giro di due anni il folle divieto della Mastella aprirà voragini in decine di procure portandole alla paralisi per mancanza di pubblici ministeri. Unica nota positiva: il Csm torna a 30 membri (20 togati e 10 laici): quanti erano prima che il governo Berlusconi li riducesse a 24.

 

67. Segreto di Stato su Sismi e Abu Omar (2006-2007). Quando, nel 2006 la procura di Milano scopre che uomini del Ros e i vertici del Sismi (il generale Niccolò Pollari, il suo vice Marco Mancini e il fido analista Pio Pompa) hanno aiutato la Cia a sequestrare, nel 2003 a Milano, l’imam egiziano Abu Omar, poi deportato e torturato per mesi in Egitto, e li fa rinviare a giudizio, il governo Prodi pone il segreto di Stato (come già il governo Berlusconi all’inizio del 2006), salvando Pollari e Mancini da sicura condanna. E solleva ben due conflitti di attribuzione fra poteri dello Stato dinanzi alla Consulta contro i giudici di Milano, che si ostinano a processare gli spioni per sequestro di persona in base a elementi che non ritengono coperti da segreto di Stato. Non solo, ma il segreto di Stato viene apposto anche sull’archivio riservato, trovato dalla Digos nell’ufficio segreto di Pompa in via Nazionale a Roma, con dossier su magistrati, giornalisti e politici sgraditi a Berlusconi. Non contento, il centro-sinistra il 3 agosto 2007 vara pure la riforma dei servizi segreti, che contiene un codicillo salva-Pollari: quello che obbliga gli 007 a non rispondere ai giudici su fatti coperti da segreto di Stato. Così Pollari sosterrà di non potersi difendere da accuse che ritiene ingiuste perché, facendolo, violerebbe il segreto. Pollari e Mancini verranno assolti, sebbene colpevoli, perché con la nuova legge sono «improcedibili».

 

68. Salva-Telecom (2006). Il 20 settembre 2006 i giudici di Milano arrestano Luciano Tavaroli, fino a pochi mesi prima capo della security Telecom e altre 20 persone legate alla struttura, con l’accusa di aver spiato e schedato per anni dipendenti, fornitori, giornalisti scomodi, politici e imprenditori. L’archivio accumulato dai Tavaroli boys, migliaia di fascicoli e dossier, terrorizza il mondo politico. Che decide in tutta fretta, d’amore e d’accordo, l’immediata distruzione dei dossier, prim’ancora di sapere che cosa contengono. Mastella vara in pochi giorni un provvedimento che ordina ai giudici di bruciare immediatamente tutto il materiale sequestrato. È il decreto 259, intitolato «Disposizioni urgenti per il riordino della normativa in tema di intercettazioni telefoniche». Il Consiglio dei ministri lo approva il 22 settembre. A nulla valgono le obiezioni dei magistrati e dello stesso ministro Di Pietro: i dossier sono il corpo del reato, mandarli al macero prima del processo è come bruciare una busta di polvere bianca appena sequestrata senza prima appurare se è farina o cocaina. O gettar via una pistola senza prima accertare se è un giocattolo o una P38. Il parlamento converte in legge il decreto, con qualche modifica, il 19 novembre con 413 sì, 1 no e 142 astenuti (Forza Italia, che avrebbe voluto peggiorare il testo un altro po’). Sarà il gip su richiesta del pm, a disporre la distruzione dei materiali illegalmente raccolti. Se però questi sono corpo di reato, il pm deve chiederne la secretazione e la custodia in un luogo protetto. Chi detiene «consapevolmente» informazioni illecite rischia fino a 5 anni di carcere. Chi le pubblica, multe da 50 mila a 1 milione di euro. Ma non basta, perché nella riforma dei servizi segreti del 2007, oltre alla norma salva-Pollari, ce n’è anche una salva-Telecom. Stavolta è nascosta nel decreto attuativo della riforma, varato l’8 aprile 2008. Fra le ragioni che possono giustificare il segreto di Stato, c’è anche «la tutela di interessi economici, finanziari, industriali, scientifici, tecnologici, sanitari ed ambientali». Una definizione talmente ampia e generica da comprendere tutto, anche i rapporti tra Sismi e Telecom. Infatti Mancini sostiene che c’era un filo diretto tra la security Telecom e il Sismi per scambi di informazioni. Dunque, come Pollari per Abu Omar, farà scena muta al processo, opponendo il segreto di Stato, che il governo Berlusconi si affretterà a confermare.

 

Centro-destra (2008-2010), governo Berlusconi 3

 

69. Lodo Alfano (2008). Nel luglio 2008, alla vigilia della sentenza nel processo Berlusconi-Mills, il Pdl tornato al governo approva la legge Alfano (detta impropriamente «lodo») che sospende i processi ai presidenti della Repubblica, della Camera, del Senato e del Consiglio sino al termine della carica. Si bloccano così per un anno e mezzo i processi Mills e Mediaset a carico di Berlusconi. Poi, nell’ottobre 2009, la Consulta boccia la legge Alfano in quanto incostituzionale e i processi ricominciano per qualche mese.

 

70. Legittimo impedimento (2010). Dopo aver tentato invano di varare la controriforma detta «processo breve» (che fulmina tutti i processi che durino più di 6 anni e mezzo, e quelli in corso in primo grado da più di 3 anni, compresi dunque quelli a carico del premier), per l’ostilità dei finiani, così come quella che di fatto abolirebbe le intercettazioni e imbavaglierebbe la cronaca giudiziaria, all’inizio del 2010 Berlusconi riesce di nuovo a congelare i suoi due processi (ai quali s’è aggiunto quello sul caso Mediatrade): il 10 marzo 2010 viene approvata una legge del ministro Alfano che rende automatico il «legittimo impedimento» a comparire nelle udienze per il premier e i ministri. E non solo per le attività di governo, ma anche per quelle «preparatorie e consequenziali, nonché comunque coessenziali alle funzioni di governo». Il tutto per una durata di 6 mesi, prorogabili fino a 18. Basterà una certificazione della presidenza del Consiglio e i giudici dovranno fermarsi, senza poter controllare se l’impedimento sia effettivo e legittimo. Il tutto in attesa della soluzione finale, cioè della nuova legge ad personam: il lodo Alfano bis, da approvarsi con legge costituzionale, che metterebbe definitivamente al riparo il capo dello Stato e quello del governo (e forse anche i suoi ministri) dai processi, anche per reati commessi prima di entrare in carica ed estranei dall’esercizio delle funzioni. Il nuovo scudo serve, recita la legge 51 in vigore dal 7 aprile 2010, per garantire loro «il sereno svolgimento delle funzioni». Risultato: i processi a Berlusconi sono sospesi fino all’ottobre 2011. Ma il 13 gennaio la Consulta ha ritenuto parzialmente incostituzionale il legittimo impedimento, affidando al giudice la valutazione degli impegni del premier.

 

71. Più Iva per Sky (2008). Il 28 novembre 2008 il governo raddoppia l’Iva a Sky, la pay-tv di Rupert Murdoch, principale concorrente di Mediaset, portandola dal 10 al 20 per cento.

 

72. Meno spot per Sky (2009). Il 17 dicembre 2009 il governo Berlusconi vara il decreto Romani che obbliga Sky a scendere entro il 2013 dal 18 al 12 per cento di affollamento orario di spot.

 

73. Più azioni proprie (2009). La maggioranza aumenta dal 10 al 20 per cento la quota di azioni proprie che ogni società può acquistare e detenere in portafoglio. La norma viene subito utilizzata dalla Fininvest per aumentare il controllo su Mediaset.

 

74. Decreto ad listas (2010). Visto che le liste del Pdl sono state presentate fuori tempo massimo nel Lazio e senza timbri di autenticazione a Milano, il governo vara un decreto «interpretativo» che stravolge la legge elettorale, sanando ex post le illegalità commesse per costringere il Tar a riammetterle. Ma non si accorge che, nel Lazio, la legge elettorale è regionale e non può essere modificata da un decreto del governo centrale. Così il Tar ribadisce che la lista è fuorilegge, dunque esclusa.

 

75. Ad Mondadori 3 (2010). L’Agenzia delle entrate contesta alla Mondadori il mancato pagamento di 173 milioni di euro di tasse evase nel 1991, in occasione della fusione tra Amef e Arnoldo Mondadori, dopo che il maggior gruppo editoriale italiano passò da De Benedetti a Berlusconi in seguito a una nota sentenza comprata da Previti con soldi del Cavaliere. Mondadori ricorre in primo e secondo grado vince la causa, ma il fisco ricorre in Cassazione e lì c’è un giudice molto severo che rischia di dar torto all’azienda berlusconiana. Così il premier vara un decreto, il 40/2010, che consente a chi ha vinto la causa in due gradi di giudizio di chiudere il contenzioso fiscale in Cassazione versando solo il 5 per cento del valore della lite. Così, invece di 173 milioni (che poi salirebbero a 350 con gli interessi), Mondadori se la cava con 8,6 milioni.

 

76. Lodo ad Legam (2010). Per salvare i leghisti delle camicie verdi ancora imputati a Verona per costituzione di formazione paramilitare fuorilegge (gli altri due reati sono già stati depenalizzati nel 2005), ecco una norma ben nascosta in un decreto omnibus, il 66/2010 approvato a marzo ed entrato in vigore a ottobre col titolo «Codice dell’ordinamento militare». Il decreto comprende la bellezza di 1085 norme e, fra queste, la numero 297, che abolisce il decreto legge 43 del 14-2-1948: quello che puniva col carcere da 1 a 10 anni «chiunque promuove, costituisce, organizza o dirige associazioni di carattere militare, le quali perseguono, anche indirettamente, scopi politici» e si organizzano per compiere «azioni di violenza o minaccia». Il trucco c’è e si vede: un provvedimento che abroga una miriade di vecchie norme inutili viene usato per camuffare la depenalizzazione di un reato gravissimo. Il ministro della Difesa Ignazio La Russa parla di «errore materiale», facilmente sanabile con un errata corrige. Ma il ministro della Semplificazione Roberto Calderoli, a suo tempo imputato a Verona, dice che non si può e che la norma non l’ha voluta lui, ma l’apposita commissione tecnica istituita dal governo Prodi. La commissione però lo smentisce. Al giudice di Verona, alla ripresa del processo, non resterà che prendere atto della depenalizzazione anche dell’ultimo reato e prosciogliere tutti gli imputati.

 

77. Salva-generali di Nasiriyya (2009). Onde evitare l’accusa di legiferare soltanto ad personam per il premier, anche in questa legislatura il centro-destra pensa anche ad altre personas. Per esempio, dando un’altra mano a Pollari e Mancini, apponendo il segreto di Stato anche nei processi per le schedature del Sismi e per i dossieraggi Telecom. Poi apparecchia una legge su misura per gli ufficiali imputati nei due processi in corso al Tribunale militare di Roma per la strage di Nasiriyya: cioè accusati di non aver fatto tutto il possibile per proteggere gli impianti e gli uomini loro affidati, agevolando così il lavoro dei kamikaze che il 12 novembre 2003 uccisero 19 italiani e 9 iracheni presso la base del nostro contingente militare in Iraq. La norma è nascosta nelle pieghe della legge che proroga le missioni militari italiane all’estero approvata il 29 dicembre 2009: i Tribunali militari, per procedere nei confronti di un soldato o di un ufficiale, dovranno avere il via libera del ministero. Nella vicenda di Nasiriyya, dunque, dovrebbe essere il ministro La Russa a chiedere di mandare alla sbarra i generali. Traduzione: il processo evaporerà per sempre. Gli avvocati delle vittime ritengono però che la «riforma» sia incostituzionale e chiedono al Tribunale militare di sollevare la questione davanti alla Corte Costituzionale.

 

78. Salva-rifiuti (2008). Il 27 maggio 2008, appena insediato il governo Berlusconi-3, vengono arrestate a Napoli 25 persone, tra cui funzionari e dipendenti del commissariato per l’emergenza in Campania. Secondo l’accusa, avrebbero consentito per anni di smaltire in discariche a cielo aperto rifiuti «tal quali» spacciandoli per «ecoballe» ecologicamente trattate con la complicità dell’impresa Fibe-Impregilo che avrebbe dovuto curare i trattamenti, «con grave pregiudizio per l’ambiente e la salute pubblica». Agli arresti domiciliari finisce, fra gli altri, Marta Di Gennaro, la vicecommissaria del neosottosegretario alla Protezione civile e commissario ai rifiuti, Guido Bertolaso, pure lui indagato. Ed ecco pronto un decreto del governo Berlusconi per sterilizzare l’azione dei magistrati: il 90/2008. Oltre a militarizzare le nuove discariche per allontanare le proteste dei cittadini, il decreto deroga alle norme nazionali ed europee sullo smaltimento dei rifiuti e consente di seguitare a sversare nelle discariche campane anche quelli tossici e pericolosi; punisce col carcere chi abbandona rifiuti ingombranti o pericolosi nelle strade della Campania; attribuisce al procuratore capo di Napoli la competenza regionale sui reati legati ai rifiuti e all’ambiente e a un organo collegiale l’adozione delle misure cautelari per gli stessi reati, espropriando così le altre procure campane e creando una mostruosa superprocura centralizzata per i rifiuti. Il Csm denuncia il contrasto fra il decreto e il principio costituzionale dell’uguaglianza dei cittadini davanti alla legge, per la norma che prevede una tipologia di reato ad hoc solo per i rifiuti ingombranti abbandonati in Campania. Il decreto finisce dinanzi alla Consulta per un’eccezione sollevata dal tribunale di Torre Annunziata: il decreto punisce certi comportamenti solo in Campania, non nel resto d’Italia, in barba al principio di eguaglianza.

 

79. Salva-beni mafiosi (2008). Il più grosso regalo del governo alle mafie è la norma, contenuta nella legge finanziaria approvata nel dicembre del 2009 per il 2010, che consente la vendita all’asta di tremila immobili confiscati alle mafie, destinando la metà dei proventi al ministero dell’Interno e l’altra metà al ministero della Giustizia. Si tratta di immobili che non possono essere destinati «a finalità di pubblico interesse». Risultato: siccome nei territori controllati militarmente dai clan nessun cittadino avrà mai il coraggio di acquistare i beni appartenenti a un mafioso, gli unici soggetti che parteciperanno all’asta pubblica saranno i prestanome degli stessi boss, che potranno così mostrare la loro onnipotenza riappropriandosi dei beni confiscati. A nulla valgono le proteste di magistrati, opposizioni e associazioni antimafia.

 

80. Scudo fiscale (2009). Nel giugno del 2008 il governo smantella subito l’Ici, la tassa comunale sulle abitazioni per tutte le prime case, escluse quelle signorili, le ville e i castelli (appena 40 mila unità immobiliari a uso abitativo su 31 milioni censiti in tutto il paese). Una norma smaccatamente pro ricchi, visto che per chi pagava fino a 100 euro di Ici all’anno, cioè per il 40 per cento dei proprietari di prime case, l’Ici l’aveva già abolita il governo Prodi nel 2008, esentando quei 7 milioni di famiglie che vivono nelle case più modeste e prevedendo maggiori detrazioni per i restanti 10 milioni. Ora nemmeno questi ultimi – i redditi medio-alti – pagheranno più un euro, con un costo per lo Stato di quasi 4 miliardi di euro. Il tutto a opera del governo che predica il «federalismo fiscale» e poi abolisce l’unica tassa federale, fra l’altro a prova di evasione. Ma non basta, perché subito dopo arriva il nuovo scudo fiscale. Il terzo della lunga era Tremonti, che aveva solennemente giurato di non farlo mai più. Funziona come gli altri due, con la differenza che sui capitali fatti rientrare, in cambio dell’anonimato e dello «sbiancamento», il governo chiede alle banche di trattenere una tassa non del 2,5, ma del 5 per cento. Comunque una miseria, specie in tempo di crisi finanziaria mondiale. In sede di conversione, poi, scompare addirittura l’obbligo per le banche di segnalare le operazioni sospette all’antiriciclaggio e vengono condonati alcuni gravissimi reati finanziari, contabili e tributari collegati con l’esportazione di capitali occulti. Lo scudo poi non si applica soltanto al denaro, ma anche alle case, agli yacht e ai beni di lusso in generale, che ovviamente restano dove sono, cioè all’estero.

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